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Ghost, il metalupo di Jon Snow in Game of Thrones

17-11-2016

La vita di un uomo era lunga cinque cani, pensava Cortland. Il primo era quello che insegnava a te. Il secondo quello a cui insegnavi tu. Il terzo e il quarto erano quelli con cui lavoravi. L’ultimo era quello che ti sopravviveva. Era il cane d’inverno. Il cane d’inverno di Cortland si chiamava Negrita, ma per lui era sempre il cane dello spaventapasseri…

Non so a voi, ma a me quest’incipit qui sopra garba assai. Asciutto, sincero, di delicata asprezza, con una venatura dal timbro epico.
Mi fa venire in mente un buon vino. Un bianco importante, mediterraneo, uno Chardonnay dai sentori di frutta tropicale invecchiato il giusto. Sorseggiato nella fresca penombra di una veranda, in un giorno assolato che volge al tramonto.
In qualche posto che potrebbe essere L’Avana. Da un bevitore solitario che potrebbe essere Ernest Hemingway.
In effetti, parrebbe proprio una cosa scritta da Hemingway. Forse perché lo è.

Trattasi dell’inizio di un racconto inedito, scritto a mano su un Moleskine preso a caso da un simpatico mucchietto di consimili –  una cinquantina circa, alcuni riempiti per intero, altri per metà, altri per un terzo – custoditi per molti anni fra le opere non consultabili della Kennedy Library di Boston e lì ritrovati dal secondogenito di Ernest, Patrick, insieme al dattiloscritto di Vero all’alba.

Com’è noto, Patrick Hemingway si occupò in prima persona dell’edizione del romanzo inedito, sfrondandolo di buona metà delle 800 pagine originali e dandolo alle stampe. Le molte e controverse critiche ricevute da parte dell’ambiente letterario, che dietro motivazioni di facciata è probabile volessero fargli pagare (ciò che a parer loro doveva apparire come) un grave peccato di presunzione da parte di un non addetto ai lavori – nonostante non solo fosse anch’egli frutto del celebre scrittore ma avesse condiviso con lui i luoghi e le situazioni raccontate nel romanzo – con ogni probabilità scoraggiarono il buon Patrick dal proseguire analogo lavoro sui preziosi taccuini.

Ora, a distanza di oltre 25 anni, è la figlia di Patrick, Mina, a rivelare di essersi occupata lei stessa, in tempi recenti e con il beneplacito del padre ormai parecchio anziano, dei taccuini del nonno. Ricavandone, in verità, non molto di interessante e degno di pubblicazione, giusto una mezza dozzina di racconti brevi, oltre a qualche pezzo dal taglio giornalistico che appare scritto più che altro per diletto. Materiale non sufficiente a realizzare un volume postumo, ma ideale come ricco bonus in appendice a una nuova edizione, critica e bilingue, de I quarantanove racconti. Che uscirà per Natale, cioè entro poche settimane, in ventisette paesi incluso il nostro, in lingua locale con testo originale a fronte.

Amante spassionato dei Racconti ed hemingwayano di lungo corso, da che ancora portavo i calzoni corti, non vedo l’ora di avere tra le mani una tale succosa chicca, in particolare per gustarmi il racconto del cane d’inverno.
Che fa molto Trono di Spade, ma non solo per quello.
I cani rivestono un ruolo importante nella mia esistenza, e la metafora della vita di un uomo che duri cinque cani mi piace molto. Considerata una media ottimistica di quindici anni a cane si arriva a settantacinque per l’uomo, che è una discreta aspettativa ancor oggi e non solo ai tempi in cui scriveva Hemingway. A patto ovviamente che ciascun cane viva una vita lunga e serena, senza incidenti o malattie. E’ anche per questo che sono rimasto colpito dalla metafora, perché la mia vita fin qui ha contato molti più di cinque cani.
A partire dal primo, che è quello che ha insegnato a me, e di cui ho raccontato un pezzo di storia tempo fa. Ora vorrei sfruttare l’occasione per riprenderla, quella storia, e concluderla. In tale circostanza avevo rievocato i ricordi belli, quelli che seguono non lo saranno altrettanto. Ma glielo devo, al mio buon vecchio amico.

La storia del cane d’inverno, invece, così come dei primi quattro, non la sapremo mai. A meno che non la scriva io, o qualcun altro a cui venga il ghiribizzo di farlo. Perché di ciò che avete letto fino a qui alcune cose sono vere (o lo erano all’alba, si potrebbe dire) e altre me le sono inventate; e se leggendo avete pensato che fosse tutto vero, significa che sono stato verosimile anche in ciò che era solo frutto della mia fantasia, in ossequio a uno dei principi fondamentali della narrativa. Ma sarebbe bastata una verifica on-line per capire che qualcosa non quadrava.
Quella, oppure essere dei fedeli lettori di un certo romanziere contemporaneo del Maine, me li immagino a scorrere il post sorridendo compiaciuti fra sé, in attesa di scoprire dove volessi andare a parare. 🙂

La storia del cane d’inverno e dei suoi predecessori non la sapremo mai perché il cane d’inverno non esiste, non è mai esistito se non per le poche righe citate all’inizio. Che non sono un estratto, ma l’unico frammento esistente di un romanzo immaginario scritto nello stile di Hemingway e a lui attribuito (un Hemingway più longevo di quanto sia stato in realtà, e non proprio di queste parti, a dirla tutta), a opera di Stephen King. Lo trovate nel racconto Ur all’interno de Il bazar dei brutti sogni. Un racconto lungo, 56 pagine articolate in capitoli, quasi un romanzo breve. Soprattutto, un racconto davvero ben riuscito, dannatamente buono per quel che può valere la mia opinione; partendo da uno spunto reale, il Kindle di Amazon, King ha saputo costruire una storia che non può mancare di meritarsi la sospensione di incredulità da parte dei lettori; me li figuro rapiti dalla lettura almeno quanto lo sono stato io.
King ha scritto questo brano per divertimento e lo ha offerto ad Amazon – dopo aver rifiutato di farlo su commissione dietro proposta del proprio agente – ricevendone in cambio il plauso dell’azienda e un Kindle in omaggio. Rosa. Perché mai rosa dovrete scoprirlo leggendo il racconto, non voglio rovinarvene il piacere dandovi troppe informazioni.

Ma qualcuna ancora sì, giusto un paio, per dovere di trasparenza.
Ignoro se Patrick Hemingway abbia rinvenuto altre carte paterne, insieme al dattiloscritto di Vero all’alba. Se sì, non ne ho trovato notizia. Così come ignoro se Ernest Hemingway prendesse appunti su dei Moleskine o su altri tipi di taccuini o block notes. Il dettaglio dei Moleskine è un’ulteriore citazione da Stephen King, stavolta dal romanzo Chi perde paga, e pure in questo caso, neanche a farlo apposta, si riferisce a uno scrittore di fantasia, che potrebbe essere ispirato a J.D.Salinger.

Il collegamento alla storia del mio primo cane, che l’incipit immaginato da King mi ha fatto tornare in mente, è vero, ed è il motivo che mi ha spinto a scrivere questo post; che nelle intenzioni originali doveva essere solo, per l’appunto, un collegamento.
Poi però mi sono lasciato prendere la mano dalla finzione kinghiana e ho voluto giocare un po’ a mia volta, mischiando le carte tra realtà e finzione.
Spero di non essermela cavata troppo male. 🙂

Stay tuned!