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Signature © maurimarino 2011, per gentile concessione. https://www.flickr.com/photos/maurimarino/

10/09/2007

C’era un ragazzino che sognava di diventare chitarrista. Venne il suo compleanno e come regalo chiese, ovviamente, una chitarra. Era molto bella. Piena di corde, però. Provò timidamente a toccarle e ne fu respinto. Allora le accarezzò: emisero un gorgoglio ottuso; niente a che spartire col mondo di suoni che lui si sentiva dentro. “Andrò da un insegnante di musica”, disse. Aveva saputo da qualche parte che quando un sogno ti resta incollato addosso significa che non è più un’illusione, ma un segnale che ti sta indicando la tua missione nella vita. Cucinare. Fare calcoli. Riparare orologi. Ciascuna di noi ha la sua e l’errore è credere che una sia più importante dell’altra, solo perché non tutte procurano fama e denaro.

Il ragazzino era sicuro che la sua missione fosse tirare fuori dalla pancia quei suoni. Così andò a lezione. Non capì niente. Ci ritornò e fu peggio.
“Mi arrendo, il sogno era falso: io non ho talento per la musica”. Se non s’imbottì di prozac, è solo perché non esisteva ancora. Nascose la chitarra in un baule e accese la radio. Lo invase un suono semplice, nuovo: pochi accordi ritmati. Alla radio lo chiamavano skiffle, ma era già il rock. Riaprì il baule e provò il primo accordo. Allora capì che per sapere se un sogno era giusto occorreva prima rinnegarlo, affinché la vita te lo restituisse per sempre con una rivelazione improvvisa. Raccontò la sua scoperta a un amico, che ieri in un’intervista l’ha raccontata al mondo.
Ah, quel ragazzo si chiamava John Lennon.

Massimo Gramellini, Il primo accordo

 

Da che ne ho memoria, la musica ha sempre fatto parte della mia vita.
Non ho un ricordo preciso del momento in cui mi ci accostai, la sola cosa di cui sono certo è che ero molto piccolo. I miei genitori avevano una piccola raccolta di vinili 45 giri con un repertorio di musica leggera degli anni ’60 e ’70, rigorosamente italiana, e una vecchia radio con sopra un giradischi.
Più o meno come questa.

Nelle mie mattine pre-scolari passavo ore a far suonare quei dischi, uno dopo l’altro. I pomeriggi meno, perché al pomeriggio scattava l’ora del sonnellino, e al risveglio iniziavano i programmi tv per i più piccoli. Erano i primi anni ’70, l’epoca in cui i televisori non avevano bisogno di telecomando, ma solo di tre tasti per selezionare i canali. Che erano giusto tre: il Primo e il Secondo Canale (futuri Rai 1 e Rai 2) e la RSI Svizzera Italiana.

In quel tempo antico, sospeso e sempre uguale, scoprii e ascoltai a ripetizione i successi di Claudio Villa, Domenico Modugno, Tony Renis e molti altri.
Last but not least, Little Tony, con due suoi evergreen, Cuore Matto e Riderà, che per me sono diventati una sorta di tesoro nazionale.
E nonostante fossi così piccolo, riuscivo ad avere una tale cura di quei dischi, sia nel tirarli fuori dalle custodie, che nel riporli dopo averli fatti suonare – per non dire dell’attenzione nell’appoggiarvi sopra la puntina del giradischi, senza farla slittare attraverso i solchi – da non averne mai rotto nemmeno uno. Li ho mantenuti in così buone condizioni che gran parte di essi (quelli a cui sono rimasto più affezionato, che conservo tuttora) suonano in maniera dignitosa ancora oggi, a distanza di quarant’anni.

Era anche l’epoca dei Pink Floyd e degli Eagles, che non facevano parte dei gusti musicali dei miei, non potevano essere più lontani. E tuttavia – da che li ho scoperti, molti anni dopo – mi lasciano ogni volta un senso di struggente nostalgia, l’eco a un tempo dolce e malinconico di un retaggio antico, come di qualcosa di non vissuto, ma soltanto sognato. Di un mondo che è andato avanti mentre io non prestavo attenzione.
E’ probabile che già in quei miei primi anni, attraverso radio e tv, frammenti di quel mondo fantastico in una lingua sconosciuta mi giungessero all’orecchio. In qualche modo, quelle melodie erano nell’aria.
E iniziavano a costruire nel mio substrato emotivo un immaginario molto più ampio di quanto potessi cogliere con chiarezza.

Sarà stato per tutta la musica che ascoltavo, di certo a quell’età avevo già un buon orecchio. Avevo imparato a fischiettare, e per lo stupore dei miei genitori e dei vicini di casa a 4 anni eseguivo con precisione il tema di Gamma, uno sceneggiato Rai del ’75 in cui si ipotizza un trapianto di cervello. Senza averlo mai riascoltato da allora, lo rammento ancora alla perfezione.
Le musiche erano del maestro Enrico Simonetti, il papà di quel Claudio che nello stesso anno compose il tema di Profondo Rosso.

Un paio d’anni dopo, alle elementari, partecipavo alle mie prime lezioni di educazione musicale, un’ora a settimana in cui si cantavano canzoncine stile Zecchino d’Oro. Ma nel frattempo il mio immaginario si era arricchito ancora, e stavolta ne coglievo il fiorire con grande chiarezza. Sugli schermi Rai era sbarcato Goldrake, rompendo l’argine televisivo in favore degli anime giapponesi e dei loro enormi robot guerrieri. Un fenomeno amplificato dal diffondersi delle tv commerciali nazionali e locali, ciascuna delle quali, anche la più piccola, offriva nel palinsesto la sua bella infornata di robottoni, in prima visione o in replica.
Gli anni fra il 1979 e il 1981 furono incredibili: ogni pomeriggio, fino alle 8 di sera, su qualunque canale c’erano cartoni animati giapponesi. E insieme alle loro fantastiche avventure, di cui non cessavo di saziarmi, le splendide sigle realizzate per la distribuzione italiana. Uno alla volta mi feci comprare i 45 giri delle serie principali, ascoltandoli per ore grazie a un mangiadischi regalatomi da mia nonna. (La vecchia radio con giradischi nel frattempo era passata a miglior vita; si era guastata, e non solo i miei non la fecero riparare, ma mi diedero anche il permesso di smontarla, cosa di cui ora ovviamente mi dolgo).
E non appena il tempo lo permetteva, scendevo in cortile, inforcavo la bicicletta e pedalavo cantando a squarciagola tutto il mio repertorio robotico. Conservo ancora oggi la mia personale raccolta di sigle tv in vinile, insieme a ciò che resta di quella nazional-popolare dei miei genitori. Eccone una parte.

Arrivò il tempo delle medie, le ore settimanali di educazione musicale aumentarono, e sotto la guida di Katherine imparai anche a suonare uno strumento, con mio grande diletto. Dapprima il flauto dolce, per passare ben presto alla clavietta, detta anche diamonica o melodica. Uno strumento didattico a fiato dotato di una piccola tastiera, simile a quella di un pianoforte. O di un organo.

Gran bella cosa, una tastiera. Cosa buona e iusta 🙂
Ed eccola qui.

Quella qui sopra non è una foto presa da internet, è proprio il mio buon vecchio strumento. Col quale suonavo roba mica da ridere. Ho ritrovato in un cassetto i quaderni di musica di quegli anni: solo nelle prime tre pagine, osserviamo l’inizio della Primavera di Vivaldi, il Can Can di Offenbach, l’Aria sulla Quarta Corda di Bach… Partiture semplificate a una sola nota per volta, d’accordo, ma pur sempre musica di alto livello.

Mia madre, che si dilettava a sua volta ad ascoltarmi ed era molto contenta di quel mio particolare interesse, mi portò da un maestro di musica perché potessi approfondirne lo studio. Ma dopo due anni di corsi privati di solfeggio senza suonare una sola nota, noiosissimi ma a cui mi sottoponevo con dedizione per non dispiacere a mia madre, seguiti (vivaddio) da uno di pratica organistica con uno studente di conservatorio, decisi di smettere con quell’impegno che non mi portava da nessuna parte, e perdipiù si sovrapponeva a quello scolastico di prima superiore.
Nel frattempo, mi ero fatto comprare una pianola elettronica e mi divertivo a strimpellare I like Chopin di Gazebo, sognando di diventare il tastierista di una rock band. Invece, sempre per interessamento di mia madre, lo sbocco dei miei studi musicali fu il sedile di un armonium in una chiesa di frazione prossima a casa mia, dove sotto la sguardo bonario ma severo dell’anziano sacerdote iniziai ad accompagnare i canti, durante la messa, a ogni festa comandata.

Dunque ci fu un tempo in cui, anche per me, la musica divenne una missione. Per giunta, una missione per conto di Dio.
Sia detto con le debite proporzioni, e il dovuto rispetto, nei confronti di John LennonJohn Belushi (pace all’anima loro) e Dan Aykroyd 🙂

Questa parte della storia, però, ve la racconto un’altra volta.
Per oggi può bastare così.

Stay tuned!

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