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Cambridge © maurimarino 2012, per gentile concessione. https://www.flickr.com/photos/maurimarino/

Cambridge © maurimarino 2012, per gentile concessione. https://www.flickr.com/photos/maurimarino/

(segue dalla prima parte)

Per parecchie settimane il mio passatempo preferito fu di osservare le facce delle persone adulte e cercare di individuare esattamente cos’era che le rendeva “facce adulte”. Il volto di un trentenne è sano, senza grinze, e non è più grande di quello di un diciassettenne. Eppure tu sai che non è un ragazzo; lo sai.

Sembra esserci una caratteristica nascosta e tuttavia assolutamente prevalente che ci mette tutti d’accordo sul fatto che si tratta di una Faccia Adulta. Non sono solo i vestiti o il modo di atteggiarsi, non è il fatto che un trentenne porta una valigia e il diciassettenne uno zaino; se mettete la testa di ciascuno in una di quelle sagome dipinte del parco dei divertimenti che raffigurano il corpo di un marinaio nell’atto di fare capriole, o quello di un pugile, ebbene riuscirete ancora a indovinare qual è la faccia adulta dieci volte su dieci.
Arrivai a credere che il buttafuori avesse ragione. E’ negli occhi.
Non è qualcosa che c’è; piuttosto, è qualcosa che non c’è più.
I bambini sono contorti. Pensano in modo tortuoso. Ma a cominciare dagli otto anni circa, quando inizia la seconda grande stagione dell’infanzia, le storture cominciano a raddrizzarsi, una dopo l’altra. I confini del pensiero e della visione cominciano a restringersi e a incanalarsi in un tunnel, man mano che aumentiamo la velocità per spingerci più avanti. Alla fine, non più capaci di trarre alcun profitto dal Mondo Incantato, decidiamo per la versione che ce ne offre la discoteca della zona, a due passi da casa… o per un viaggio a Disneyland in febbraio o marzo.
L’immaginazione è un occhio, un meraviglioso terzo occhio che fluttua in libertà. Da bambini, quell’occhio ha una vista di dieci decimi. Man mano che cresciamo, essa comincia a offuscarsi… E un giorno il tizio accanto alla porta ti lascia entrare nel bar senza chiederti alcun documento di identità; e se vuoi capire capisci: ormai sei dall’altra parte. E’ negli occhi. Qualcosa che è nei tuoi occhi. Guardateli nello specchio e dimmi se sbaglio.

Il lavoro dello scrittore del fantastico, o dello scrittore dell’orrore, è di allargare temporaneamente le pareti di quella visione a tunnel; di fornire quel terzo occhio di una singola, potente lente. Il lavoro dello scrittore del fantastico e dell’orrore è di farti tornare temporaneamente bambino.
E lo scrittore (o scrittrice) dell’orrore, in sé e per sé? Qualcun altro legge la storia della Signorinetta Nessuno [..] e poi dice: “Perdio, l’avresti mai detto?” e poi si mette a fare qualcos’altro. Ma lo scrittore comincia a giocare con quella storia come farebbe un bambino, immaginando fanciulli da altre dimensioni, sosia e Dio sa che altro. E’ come il giocattolo di un bambino, qualcosa di luminoso, di luccicante, di strano. Tiriamo giù questa levetta e vediamo che succede, spingiamolo qua e là sul pavimento e sentiamo se fa vruuum vruuum o tra-tra-tra-tra. Mettiamolo sottosopra, e vediamo se magicamente si raddrizza. In breve, teniamoci pure le piogge di rane e le persone che sono misteriosamente bruciate vive mentre sedevano a casa loro in comode poltrone; teniamoci i vampiri e i licantropi. […]

E qualcosa di questo si riflette negli occhi di coloro che scrivono storie dell’orrore. Ray Bradbury ha gli occhi sognanti di un bimbo. Gli stessi di Jack Finney, dietro le spesse lenti degli occhiali. E lo stesso sguardo negli occhi di Lovecraft: ti fanno trasalire con la loro schietta, misteriosa precisione, accentuata da quella scarna, tirata, e in un certo qual modo eterna faccia del New England. Anche Harlan Ellison […] ha quegli occhi. Prima o poi si fermerà, distoglierà lo sguardo guardando qualcos’altro, e allora saprete la verità: Harlan è contorto, ha pensato in modo davvero tortuoso. Straub, che veste in modo impeccabile e in ogni situazione sembra emanare l’aura di successo di una grande impresa, anche lui ha quello sguardo negli occhi. E’ uno sguardo indefinibile, ma c’è.
“E’ la più bella scatola di trenini elettrici che un bambino abbia mai visto”, Orson Welles disse una volta del far cinema; lo stesso si può dire dello scrivere romanzi e racconti. E’ la possibilità di allargare quella visione a tunnel, di dilatarla facendo volare in aria tutte le pietre delle pareti, cosicché, almeno per un attimo, si apra dinanzi a noi un paesaggio onirico di meraviglie e di orrori, che abbia la stessa limpidezza e tutta la magica realtà di ciò che vedemmo da bambini nel nostro primo giro sulla ruota panoramica al luna park, roteando e roteando contro il cielo. Il figlio morto di qualcuno è nell’ultimo film. Da qualche parte un essere immondo – l’Uomo Nero! – sta arrancando nell’oscurità della notte, gli occhi gialli che mandano lampi tra la neve.
I ragazzi stanno tornando a casa, oltrepassata la biblioteca, alle quattro del mattino, facendo un sacco di rumore tra le foglie dell’autunno, e in qualche altro luogo, in qualche altro mondo, anche in questo momento in cui sto scrivendo, Frodo e Sam stanno muovendo verso Mordor, la dimora delle ombre. Ne sono assolutamente certo.

Pronta per andare? Bene. Il tempo di prendere il mio cappotto.
Non è affatto una danza di morte, no davvero. Esiste un terzo livello, non lo dimentichiamo. E’ la danza dei sogni, in fondo. E’ un modo di risvegliare il bambino che è in noi, quel bambino che non muore mai, dorme soltanto sempre più profondamente. Se la storia dell’orrore è la nostra prova generale per la morte, allora la sua severa moralità è anche una riaffermazione della vita, della buona volontà e dell’immaginazione ingenua: solo un ponte in più verso l’infinito.
[…] Ci muoviamo dal ventre alla tomba, da un’oscurità all’altra, sapendo poco dell’una e niente dell’altra… fuorché per fede. Che noi rimaniamo sani di mente di fronte a questi misteri semplici eppure accecanti è quasi divino. Che ci sia possibile volgere le potenti intuizioni dell’immaginazione a quei misteri, e guardarli in questo specchio di sogni, che ci sia possibile, per quanto timidamente, infilare le mani dentro il foro che si apre al centro della colonna della verità, tutto questo è…
…bene, è magia, non è vero?

Sì. Forse è con questa parola, piuttosto che con il bacio della buonanotte, che voglio congedarmi da te; questa parola che i bambini rispettano istintivamente, questa parola la cui verità riscopriamo da adulti soltanto nelle storie… e nei sogni:
Magia.

Stephen King, Danse macabre

Ecco. Finito.
E’ stato un po’ lungo, come preannunciavo, Ma ne è valsa la pena 🙂
Ho apprezzato la potenza evocativa di questo saggio fin dalla prima volta che l’ho letto, e ad ogni rilettura la ritrovo intatta.

Io non ho avuto fratellini o sorelline a cui passare gli dei della mia infanzia, sarà per questo che sono ancora tutti qui con me. Robot d’acciaio alti dai 18 ai 30 metri, i loro piloti con divise sgargianti, pirati della Malesia, pistoleri, cavalieri in armatura dalle lunghe spade diritte. E, lungo il cammino, a quegli dei primordiali se ne sono aggiunti molti altri.
Tutti loro mi hanno aiutato, e mi aiutano ancora, a mantenere aperto, nel tempo, il mio terzo occhio. E io scrivo per continuare a sentir battere, forte e chiaro, il cuore di quel bambino – immortale al pari dei propri eroi – che è dentro di me, le storie magnifiche di cui si nutre e quelle che ha da raccontarmi e farmi sognare. Con gli occhi e la mente spalancati, a cogliere ogni frammento di bellezza e di emozione che mi capiti di intravedere in ciò che mi circonda.

Una carrellata di dei della mia infanzia... e non solo di quella ;-)

Una carrellata di dei della mia infanzia… e non solo di quella 😉

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