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© maurimarino

© maurimarino

…ognuno di noi sta dove stanno tutti, nell’unico luogo che c’è, dentro la corrente della mutazione, dove ciò che ci è noto lo chiamiamo civiltà, e quel che ancora non ha nome, barbarie. A differenza di altri, penso che sia un luogo magnifico.

Alessandro Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione

 

E così, sono tornato a fare una delle cose che più amo, e che mi è propria come forse nessun’altra. Sono tornato a scrivere, fanno ormai un paio di mesi.
In tempi non sospetti ho affermato che io sono ciò che scrivo, e quando non scrivo significa che non sono. Il che, mi si potrebbe obiettare, suggerisce l’idea che io non sia altro che parole. Ripensando alle tante secche del mio passato recente e meno recente, non mi sento di smentire in toto tale supposizione. E tuttavia, a maggior ragione, pensate dunque cosa debba essere quando non scrivo. Nulla, appunto. Niente più di zero.

Sono tornato a a raccontarmi, a esprimere ad alta voce ciò che penso e che provo, pur consapevole di espormi a un rischio. Il rischio di lasciarmi trascinare dai miei demoni e di perdere il controllo, abbandonandomi a un’ossessiva quanto gioiosa deriva che si alimenti del proprio stesso fuoco. Il che potrebbe anche funzionare, non dico di no.
Peccato che esista un piccolo problema: ciò che brucia più forte, brucia più in fretta. E quando si sono gettate in un unico imponente falò tutte le proprie vanità, consumandole fino all’ultima goccia, il fuoco si spegne, e rimane solo l’odore acre della cenere. Per un po’.
E poi, più nulla. Buio. Vuoto. Silenzio. Il grigiore ottundente di inverni nucleari che durano anni, come quelli paventati dai protagonisti de Il trono di spade. Perché la notte è oscura e piena di terrori (cit.)
Era proprio quello il genere di stagione che tentavo di esorcizzare, tempo fa. Come sia poi andata, forse a questo punto un’idea ve la siete fatta.

Ma quell’inverno è passato ed è ormai alle spalle, e fino a che non ritorni nel ciclico ripetersi di ogni cosa (il ka è una ruota che gira, direbbe Roland Deschain di Gilead, l’ultimo cavaliere di un mondo che è andato avanti), orsù, in alto i cuori e fuori la voce. Che questi fiori gialli non si scrivono mica da soli 🙂

Sapete, uno se lo domanda, prima o poi, perché gli venga naturale scrivere così tanto. D’accordo, è un modo di esprimere le proprie idee, la propria creatività, ma non basta.
Molti anni fa, ho trovato una risposta, semplice e bella, in una storia di Dylan Dog (°):

Si scrive perché non se ne può fare a meno.

E’ un’urgenza vitale, qualcosa che è intima parte di te; ti nasce dentro e vuole a tutti i costi uscire fuori, flusso magmatico di pensieri che anelano a disporsi in bell’ordine su un foglio di carta.

Poco tempo dopo, mi capitò di leggere un’altra risposta su La Stampa, a firma di Ferdinando Camon:

La scrittura è la spia di un rapporto infelice con il mondo. Tutta la scrittura, anche quella dei geni. Si scrive perché non si ha un rapporto immediato e vissuto con la realtà, le si risponde tardi, quando si è tornati a casa, ci si è nascosti e chiusi a chiave. Pirandello: o si vive o si scrive. Nei ragazzi la vocazione a scrivere è il presentimento di un rapporto perdente o struggente col mondo. Ma è anche la correzione di quella perdita, è anche una vittoria, anzi “la” vittoria per eccellenza, perché la scrittura ha il senso dell’eternità.

Questo commento si riferiva a una storia tragica, il suicidio di un ragazzo di 15 anni che si era fatto saltare le cervella giocando alla roulette russa con la pistola del padre, un ormai lontano 10 maggio del 1996. Il ragazzo teneva un diario, e su di esso aveva annotato una frase dal film Il Corvo (°°): “non può piovere per sempre”, aveva scritto. Non oso immaginare quali insostenibili tormenti lo abbiano spinto a emulare Christopher Walken ne Il cacciatore, mentre era lì a sperare che smettesse di piovere e tornasse il sereno.
Forse cercava di esorcizzare la disperazione che quel momento non arrivasse mai, o forse aveva già perso ogni speranza e stava cercando il modo di uscirne. Oppure, ancora, aveva deciso di sfidare la morte e di affermare così se stesso, attraverso quei gesti estremi di titanismo romantico.

Collocate nel loro contesto originario, le considerazioni di Camon assumono riflessi inquietanti. Eppure trovo che siano molto pertinenti. Un rapporto non immediato, bensì differito, con la realtà. A cui si risponde tardi, quando si è soli con i propri pensieri. Un rapporto complicato, frustrante con il mondo, presentito o contingente che sia. E il tentativo di superare tale distanza affidando i propri pensieri, il proprio io, alla scrittura, in ossequio a quella funzione eternatrice della letteratura che Foscolo attribuiva a (e perseguiva con) la poesia.

Tutto ciò, in qualche misura, apparteneva allora e appartiene ancora adesso anche a me. E, allora come adesso, non potevo e non posso fare a meno di domandarmi se mai mi capiterà di finire allo stesso modo di quel povero ragazzo. Il fatto di non possedere un’arma da fuoco mi ha fin qui preservato dalla reale possibilità di doverlo un giorno scoprire. Ma è una condizione che muterà a breve, perché la mia adorazione quasi feticista, che nutro fin dalla più tenera infanzia, per l’essenziale perfetta eleganza delle Colt .45 single action army modello 1873, la pistola di Tex Willer per intenderci, mi impone con sempre maggiore urgenza di colmare questa lacuna; e il piacere di aggiungere al mio tesssoro questi due gioiellini qui sotto val bene la seccatura di dover conseguire un porto d’armi, per poterle acquistare e detenere legalmente.
Colt45

Di una cosa però sono certo: se mai dovessi ritrovarmi un giorno a considerare un uso autoinflitto di queste pistole, non mi affiderei alla sorte nel mettere un solo proiettile nel tamburo per poi farlo girare e vedere come va. Non ho bisogno dell’adrenalina di una sfida tanto folle, ne faccio volentieri a meno. Capisco che qualcuno a questo punto potrebbe obiettarmi, si vabbé, che vuoi dire, volersi sparare in testa non è già abbastanza folle? Dipende.
Se mai mi diagnosticassero una malattia devastante e incurabile, come ad esempio al momento sono l’Alzheimer o la SLA, non attenderei di consumarmi un po’ alla volta, per anni. E nemmeno mi metterei in lista d’attesa per un ospedale svizzero o belga, dove farmi aiutare a porre fine alle mie sofferenze con una siringa nel braccio, come se si trattasse dell’esecuzione per un reato di pena capitale. Che poi, un condannato a morte lo sarei davvero, ma intendo conservarmi il diritto, e la dignità, di essere io a decidere come, quando, e in che modo, staccare la spina. Potendo scegliere, desidero che la morte mi colga vivo, se capite ciò che voglio dire.

L’inquietudine che accompagna la spontanea domanda che mi pongo, nel ripensare al destino tragico di quel ragazzo, non nasce dal timore di prefigurarmi una scelta radicale nel momento in cui non avessi più nulla da perdere. Ma dalla recondita eventualità, considerate certe analogie, diciamo così, di approccio, di arrivare a compierla in altre circostanze e per altri motivi, quando ancora non tutto sia perduto, ma esista una residua possibilità di andare avanti, anche se in quel momento non la si vede o non si riesce a crederci.

Ma che bel fiore giallo allegro che sta venendo fuori, quest’oggi, vero? 😀
Non era nelle mie intenzioni, ma in fin dei conti, la morte fa parte della vita, anzi, secondo alcune culture ne costituisce il compimento, dunque l’istante più significativo dell’intera esistenza. E mi sembra giusto parlarne, di tanto in tanto.

Insomma, per tornare al quesito iniziale, e stringendo ciò che si è detto finora…
Si scrive perché non se ne può fare a meno.
Si scrive perché non si sa fare altro.
Sono due facce della stessa medaglia.

Per ora mi fermo qui, ma il discorso non è affatto concluso, anzi, si può considerare appena appena introdotto. L’analisi del #perchescrivo proseguirà nei prossimi fiori gialli; e poiché ce ne vorranno più di un paio, li alternerò con altri argomenti. Stay tuned!

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(°) Purtroppo non mi sono segnato né il titolo, né il numero, né l’autore, e ritrovare il relativo albo nel bailamme delle mie raccolte, al momento, è pressoché impossibile. Peccato. Rimedierò (spero), un giorno o l’altro.

(°°) Neanche a farlo apposta, lupus in fabula.

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(L’immagine del cigno è una fotografia di Maurizio Marino, per gentile concessione)